Il protagonista del romanzo “Sullo sfondo le Marche” di Barbara Scheggia descrive chi sono i calzaturieri marchigiani e perché tra l’ipocrisia di una pace non voluta da nessuno e il sollievo del condizionatore acceso per tutta l’estate scelgono la sopravvivenza delle proprie aziende e dei propri operai.
Come riportato da diversi quotidiani, anche nazionali, i nostri calzaturieri hanno deciso di non obbedire ai diktat del nostro governo dei “migliori” e dei burocrati di Bruxelles. Per capire i motivi alla base di questa decisione, condivido con voi qualche pagina del mio romanzo, che sono convinta, valga più di mille spiegazioni ed ipotesi.
…Improvvisamente, fa capolino il custode che, come un sensitivo, sembra percepire ciò che succede in ufficio ancor prima che accada. «Si è rotto uno dei ferri per stirare le fodere, devo andare a farlo riparare. Metto anche un po’ di carburante nel furgoncino?» Gli faccio un cenno di assenso con il capo, consapevole che fra poco meno di dieci minuti tutti gli operai saranno a conoscenza dei miei rimproveri, per la soddisfazione
di quelli più invidiosi. Guardo il mio famoso quaderno verde, diventato ormai una bibbia per tutti, appoggiato sulla scrivania, accanto alle buste con gli schizzi dello stilista. Cinquanta modelli attendono di ricevere il sigillo di un nuovo codice dal mio pennarello rosso e posso concentrarmi su quello che amo di più. Osservo attentamente le scarpe sul carrello, sembrano temere questa mia concentrazione su di loro. Ne prendo una, la
accarezzo, la analizzo da tutte le angolazioni, prima la tomaia poi le parti laterali, infine la suola. La annuso e la memoria ritorna al primo laboratorio che i miei fratelli avevano allestito nello scantinato sotto casa. La vita in campagna era dura, tante fatiche e poche soddisfazioni. Dieci orfani senza prospettive. Le femmine avrebbero potuto sbarcare il lunario trovando un buon marito, noi maschi, invece, dovevamo per forza rimboccarci le maniche per non soccombere alla miseria. La guerra aveva inghiottito il maggiore, quello che aveva fatto da padre a tutti noi, ma il miracolo economico degli anni successivi aveva dato una chance a tutti gli altri, me compreso. Io ero troppo giovane e andavo ancora a scuola, mentre Manfredo e Sandro, dopo qualche anno come operai della prima e unica fabbrica del paese, avevano ristrutturato una vecchia casa diroccata appena fuori le mura e si erano sposati. La decisione di mettersi in proprio era stata quasi naturale. Sandro abitava al pian terreno, Manfredo al
primo piano. E nello scantinato, il laboratorio. Iniziavano a lavorare all’alba e continuavano fino a sera inoltrata, fermandosi solo a mezzogiorno, quando le novelle spose li attendevano per il pranzo. Io frequentavo la Ragioneria e nel pomeriggio passavo per sistemare i documenti, le fatture e i pagamenti. E il sabato prendevo in prestito la 600 di Sandro per andare a vendere la produzione settimanale al mercato di San Benedetto. Ero timido e impacciato, ma la paura dei rimproveri feroci dei miei fratelli mi costringeva a impegnarmi al massimo e tornare a casa con il minimo di rimanenze possibili. Ero molto curioso e rubavo con gli occhi le abilità degli altri commercianti. In poco tempo, avevo imparato a concludere anche le trattative più estenuanti. Ascoltavo e apprendevo l’arte del venditore con umiltà e sacrificio e il giorno dopo suggerivo a Manfredo come modificare i modelli, studiavo modi nuovi per sprecare meno pellame e sperimentavo combinazioni di materiali diversi. Erano le prime rudimentali ricerche di mercato, utili per indovinare le esigenze dei clienti. Le scarpe non dovevano solo soddisfare un bisogno primario, l‟Italia era in pieno boom economico e la gente voleva sognare, concedendosi lusso ed eleganza. «Basilio scusa, ma devi venire di là. Uno dei campioni si è rotto
proprio sulla punta, al montaggio non se ne sono accorti e io non so come sistemarlo». Non trattengo una bestemmia.
Nonostante il progresso, la scarpa artigianale ha bisogno di gesti esperti, fatti di pazienza, abilità ed esperienza. I politici ci ripetono che dobbiamo investire nelle nuove tecnologie, ma questi burocrati da quattro soldi non si rendono conto che è la manualità a fare la differenza. Ho trasformato il vecchio laboratorio in una fabbrica completa e non mi convinceranno mai ad abbandonare i miei metodi tradizionali, anche se è sempre più difficile trovare operai esperti e motivati. La fabbrica è un ecosistema perfetto. A destra, i ceppi e i trincetti affilati dei tagliatori fronteggiano una ventina di macchine da cucire, manovrate da donne spettinate e senza trucco. Al centro, la vecchia catena di montaggio, dove attrezzature di ultima generazione si alternano agli sgabelli dei calzolai più anziani, armati di chiodi e martello. A sinistra, il suolificio, che trancia e tinge ancora a mano ritagli di cuoio grezzo e incolore. Infine, il mondo delle fate, come lo chiamo io. Queste sante donne, dotate di spugne marine, forbici e cere, depurano da ogni asperità questi accessori straordinari. È qui che le scarpe conquistano un’anima e una personalità ben precise. Odori inconfondibili di colla e creme si mescolano al sudore della fronte. I fragori delle apparecchiature sovrastano le voci, ma sono rumori familiari e quasi confortanti, soprattutto per quelli che in questa fabbrica ci sono cresciuti e vi hanno trovato anche l’amore. La sirena delle nove che dava l’occasione per corteggiare la vicina di posto per un quarto d’ora, le sigarette fumate in fretta nel cortile, le gioie e i dolori condivisi tra uomini e donne che, prima di essere compagni di lavoro, erano amici. Questa fabbrica è sempre stata una piccola grande comunità che, purtroppo, si
sta sgretolando sotto il peso di gelosie e dispetti. Mi ha consentito di diventare un uomo e di raggiungere il successo che sognavo da bambino. Nonostante tutto, verso questi uomini e queste donne sento una profonda e pesante responsabilità.
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