
Ieri sera, nella popolare trasmissione “Fuori dal Coro” di Mario Giordano, sono stati accesi i riflettori sul settore calzaturiero, in particolare quello marchigiano, con interviste e riprese anche a Montegranaro, mio paese natale.
Una delle aziende riprese è quella di Damiano Chiappini, un mastro artigiano di altri tempi, che produce scarpe su misura con tecniche manuali artigianali, tramandate da suo padre e da suo nonno. Una delle aziende che Keep in Touch si onora di seguire e promuovere.
Il dramma che si sta svolgendo in queste settimane per artigiani come Damiano Chiappini ha origini antiche e affonda le sue radici in quel fenomeno ambivalente chiamato “globalizzazione”.
Dalla Treccani leggiamo: Fenomeno di unificazione dei mercati a livello mondiale, consentito dalla diffusione delle trasformazioni economiche, dalle innovazioni tecnologiche e dai mutamenti geopolitici che hanno spinto verso modelli di produzione e di consumo più uniformi e convergenti. Coniato dalla rivista The Economist nel 1962, il termine g. si è diffuso solo a partire dalla metà degli anni Novanta del 20° secolo, e talvolta è inteso come sinonimo di liberalizzazione, per indicare la progressiva riduzione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali su scala planetaria…………..
……….La diffusione delle tecnologie ha avuto una forte accelerazione; il progresso tecnico, con i suoi effetti sui costi di trasporto e comunicazione, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi. In questo mercato «globale», le aziende multinazionali sono diventate il principale motore della globalizzazione. Tuttavia, mentre le restrizioni normative alla libera circolazione di merci e capitali si sono ridotte, i movimenti di lavoratori sono rimasti invece a un livello inferiore a quello dei primi anni del 20° sec., e hanno continuato a essere regolamentati da legislazioni restrittive. Inoltre le nuove tecnologie hanno facilitato il coordinamento di attività distanti tra loro e favorito la frammentazione dei processi produttivi e la delocalizzazione dei loro segmenti in Paesi diversi, il che ha finito per indebolire i lavoratori salariati. La corsa al ribasso nelle condizioni dei lavoratori e la crescente tendenza al predominio sull’economia mondiale da parte delle grandi multinazionali, sempre più autonome dai singoli Stati, la crescente influenza di queste imprese e delle istituzioni finanziarie internazionali sulle scelte dei governi hanno provocato un aggravarsi degli squilibri economici e sociali interni ai singoli Stati e nei rapporti tra Paesi e aree economiche. La g. è stata quindi accompagnata da un complessivo aumento delle disuguaglianze. Questi elementi, accanto all’emergere di «problemi globali», quali quelli legati all’ambiente, ai mutamenti climatici ecc., hanno fatto sì che la g. vedesse anche il sorgere dei suoi avversari e dei suoi critici, a partire da quel movimento no global che esordì a Seattle nel 1999 in occasione di un vertice della WTO. Secondo la critica dei no global, il libero scambio e le organizzazioni che lo regolano rappresentano una minaccia ai diritti sociali e al rispetto dell’ambiente. In particolare, il libero scambio rischia di non essere equo in quanto si realizza tra nazioni caratterizzate da livelli diversi di sviluppo e vede una (o un gruppo) di queste in posizione di enorme vantaggio rispetto alle altre. Anche economisti che hanno avuto un ruolo dirigente negli organismi sopranazionali, come J. Stiglitz, hanno manifestato critiche simili, mentre studiosi come M. Chossudovsky hanno parlato di «globalizzazione della povertà». Molti dei critici ritengono dunque necessario varare misure correttive in grado di garantire più che un libero commercio (free trade) un commercio equo (fair trade). In tal senso il movimento di critica alla g. è definito anche new global, in quanto si pone in larga parte non in modo ostile alla g. in quanto tale, ma alla g. presente, e muove dall’idea di adoperare i potenziali vantaggi derivati dall’integrazione economica mondiale per mutarne il segno e porla a disposizione degli interessi dell’umanità.
Come potete leggere nella definizione sopra riportata, la globalizzazione ha dato luogo alla frammentazione e alla delocalizzazione dei processi produttivi, indebolendo i lavoratori e le piccole aziende, a favore di grandi multinazionali che, nel corso degli anni, sono diventate più potenti degli stati sovrani stessi.
La pandemia Covid degli ultimi due anni e la guerra russo-ucraina di oggi stanno dando il colpo di grazia alle aziende manifatturiere europee in generale e a quelle italiane in particolare.
Il nostro distretto calzaturiero è stato uno dei primi ad affacciarsi al di là del muro di Berlino all’inizio degli anni 2000 e ha praticamente “colonizzato” quella che era la nuova classe media russa e ucraina.
In un momento in cui il mercato interno e quello europeo mostravano i primi segni di sofferenza insieme a quello americano, i nostri artigiani hanno adattato le loro collezioni al gusto “russo” , increduli di fronte all’euforia che i nuovi ricchi dell’est Europa mostravano nei confronti del Made in Italy nostrano. Una volta comprese le caratteristiche dei piedi di quelle popolazioni, messe a punto forme e strutture, verificato quali fossero i materiali più adatti a sopportare le rigide temperature di quella parte di mondo, tutto si è sviluppato molto facilmente e molto velocemente: ogni settimana le nostre aziende erano invase dagli “Shopping Tours”, nei quali autobus stracolmi di signore e signorine russe, ucraine, kazake, cecene e siberiane con i bigliettoni verdi nelle borsetta e un corso accelerato di lingua italiana nel curriculum venivano a svuotare i nostri factory outlets, che all’epoca chiamavamo semplicemente spacci aziendali.
Gli alberghi della costa adriatica, da Rimini a San Benedetto del Tronto erano pieni tutto l’anno e tutti i giovedì sera i nostri imprenditori, con la scusa della consegna ” a domicilio” , animavano le serate culinarie e danzanti delle signorine in questione, facendo la fortuna di centinaia di albergatori abituati fino ad allora a lavorare solo da Aprile ad Ottobre.
Le fiere della calzatura come il Micam di Milano o la Obuv Mir Khozi di Mosca erano affollatissime e molti di noi dovevano addirittura districarsi tra clienti che letteralmente si rubavano i modelli dalle mani, impavidi di fronte a prezzi impensabili per altri mercati più “maturi” in quanto estasiati dalla qualità della manifattura. Mentre le collaborazioni diventavano sempre più amichevoli e proficue e i contratti si concludevano spesso davanti ad un buon piatto di spaghetti all’astice e una pregiata bottiglia di vino.
All’inizio ero diffidente nei confronti di questi russi ( noi li chiamavamo tutti russi, perché a dispetto dei confini dei nuovi Stati creatisi dopo la disgregazione dell’impero sovietico, la matrice culturale era la stessa per tutti), da sempre immaginati come gente chiusa, scontrosa, triste e anche pericolosa. A dire la verità, fin dall’infanzia e per motivi a me ignoti anche oggi, questo popolo e la sua storia hanno sempre esercitato un enorme fascino su di me, tanto da aver portato agli esami della mia maturità liceale la storia della rivoluzione russa e da aver inserito la lingua russa ( o meglio nozioni di lingua russa) tra gli esami universitari per il conseguimento della laurea in economia alla Sorbona di Parigi nel 1996. Conoscevo le note di tanti musicisti classici e le pagine di romanzieri famosi che hanno reso grande la letteratura russa e sapevo che i miei futuri figli, se ne avessi avuti, si sarebbero chiamati Pietro, come lo zar Pietro il Grande, e Anna, in omaggio alla mia eroina letteraria preferita, Anna Karenina. Questa propensione verso il popolo russo ha portato con sé la curiosità di conoscere meglio e capire questo popolo e presto l’iniziale diffidenza si è trasformata in empatia e simpatia: ho scoperto gente molto seria e anche rigida a volte nel lavoro, ma amante della compagnia, della musica, dello stare insieme e dell’amicizia.
Fino al 2008 il mercato russo appariva come inesauribile e la maggior parte dei nostri imprenditori, che con i nuovi russi condivideva forse anche la stessa ascesa sociale dalla condizione di operai e contadini a quella di borghese ricco facilmente “ubriacabile” da lusso e frivolezza, non si è minimamente posta il problema di cosa sarebbe successo quando quel mercato si fosse saturato. Perchè, con un minimo di lungimiranza, si poteva facilmente osservare già dopo pochi anni, che il gusto dei russi si stava affinando e avvicinando sempre più a quello europeo, dove non sarebbe bastato uno strass o un pellame lucido ad invogliare i clienti a fare nuovi ordini; che gli investimenti da fare nelle collezioni diventavano sempre più consistenti e la spinta creativa necessitava di nuova linfa vitale; che tanti buyers improvvisati, che all’inizio erano stati scelti come prestanome da ex politici per rimpiazzare le posizioni di potere che occupavano nel vecchio apparato sarebbero scomparsi velocemente; che, come è avvenuto per tutte le società moderne, i consumi si sarebbero spostati inesorabilmente dal segmento dell’abbigliamento e calzature a quello dei viaggi, del tempo libero e della tecnologia.
In questo quadro è arrivata la cosiddetta “rivoluzione arancione” in Ucraina e la crisi finanziaria globale , seguita dal colpo di stato a Piazza Maidan del 2014, che ha comportato non solo una serie di sanzioni pesanti per il mercato russo, ma anche e soprattutto un impoverimento della classe media di quei Paesi, che non si poteva più permettere di acquistare le nostre calzature ai prezzi elevati che noi eravamo costretti ad offrire per tutta una serie di ragioni interne.
A quel punto, la perdita di fatturato scaturita da tutte queste circostanze non ha potuto essere assorbita da altri mercati: l’economia italiana ed europea erano già stagnanti prima e tante energie investite in collezioni dal gusto russo che garantivano ordinativi consistenti, fatturati alti e pagamenti anticipati avevano fatto perdere acquirenti di altri Paesi, con gusti differenti e per niente disposti a pagare in anticipo e a garantire ordinativi minimi troppo alti per la loro organizzazione commerciale.
Le aziende artigiane obbligate a rimpiazzare la clientela persa per riempire le loro catene di montaggio hanno scelto di lavorare in private label per i grandi brand del lusso, perdendo a poco a poco la loro creatività e il loro entusiasmo. mentre gli imprenditori specializzati in prodotti di qualità medio-bassa hanno visto nella delocalizzazione l’unico strumento efficace per contenere i costi e sopravvivere.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: tante serrande sono state abbassate, le competenze e il know-how tramandato da padre in figlio si è perso per strada e burocrazia e tassazione esagerata hanno fatto perdere competitività ad un settore che è sempre stato il fiore all’occhiello della moda italiana. L’uniformizzazione dei gusti e delle tendenze ha livellato anche la qualità verso il basso, poichè la discriminate più importante per i buyers è diventata sempre di più il prezzo.
In questo quadro, i grandi brand, grazie alla loro enorme forza finanziaria e alla loro efficace struttura organizzativa, sono riusciti a creare un veroe proprio monopolio, utilizzando tutti i nuovi canali del marketing e della comunicazione digitale e sfruttando la maestria e la manualità di artigiani diventati invisibili al mondo perchè privi del proprio nome sui prodotti realizzati su commissione. Per i fondi d’investimento, proprietari di questi grandi brand, la passione e i sacrifici che ogni artigiano investe nel proprio lavoro non hanno nessun appeal; il loro unico interesse è il guadagno che l’investimento fatto può garantire loro: hanno usato e usano tutt’ora gli artigiani per preparare nuove collezioni, prototipi e piccoli ordini esclusivi, ma i numeri veri li fanno nelle fabbriche cinesi, alle quali riservano il grosso della produzione. Se aggiungiamo che i margini di guadagno per gli artigiani italiani sono risibili in confronto ai costi che la fase di campionario e prototipazione comporta, mentre per quelli cinesi, con costi della manodopera bassissimi e nessuna regolamentazione o vincolo ambientale e sindacale, è facile intuire perchè la pandemia prima e la guerra adesso possono rappresentare la morte definitiva del settore calzaturiero artigiano.
Le lacrime di Damiano Chiappini e il grido di aiuto lanciato ieri sera da tutti gli altri imprenditori intervistati nella trasmissione di Giordano sono la rappresentazione plastica di quella “distruzione creativa” tanto auspicata dai nostri leaders mondialisti. L’eventuale embargo al gas russo e l’isolamento del blocco occidentale da quello russo-cinese che si sta delineando all’orizzonte rischia di stroncare per sempre ogni possibilità di ripresa del mondo artigiano, con buona pace della poesia e dell’arte contenute nel Made in Italy più autentico.
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