
Da diversi anni seguo aziende artigiane che hanno deciso di investire nella digitalizzazione, cominciando a focalizzare l’attenzione sulla propria immagine social e lanciando siti e-commerce di proprietà, attraverso i quali tentare di aumentare il proprio fatturato.
Ovviamente, quando ci si approccia al mondo del web, non si può assolutamente ipotizzare di concorrere alla pari con colossi come Amazon, Alibaba o Zalando, in primo luogo perché il budget a disposizione delle PMI è assolutamente impari, in secondo luogo perché il manufatto artigianale è quanto di più lontano ci possa essere dal prodotto di massa veicolato e promosso dalle piattaforme big-tech.
Quindi il dilemma è: come fare per sfruttare al meglio gli strumenti tecnologici a disposizione, senza grandi investimenti e senza quell’organizzazione necessaria a governare un processo ancora così sconosciuto e imperfetto?
Purtroppo, in molti si sono visti ingannare da sedicenti consulenti di marketing che promettevano incrementi fantasmagorici di fatturato in pochi mesi; in molti hanno capito che in questo mondo globalizzato vale la legge del più forte ( finanziariamente parlando) e che quella che era stata presentata come la soluzione perfetta, adatta per ogni produttore, non era poi così semplice da realizzare e da comprendere.
In questi ultimi periodi, i sentimenti prevalenti che gli artigiani esprimono nei confronti degli operatori della digitalizzazione forzata sono la DIFFIDENZA e la RASSEGNAZIONE: diffidenza verso chiunque, anche verso chi, più realista del re, propone delle soluzioni relativamente economiche e presenta il mondo del web come uno strumento che deve essere “customizzato” su ogni singola realtà aziendale, senza prospettare guadagni illusori e immediati; rassegnazione poiché, dopo tentativi andati a vuoto, la fatica di mantenere e potenziare le caratteristiche artigianali dei propri prodotti ha lasciato il posto alla decisione di produzioni in private label per i grandi marchi, poco remunerative ma più rassicuranti e facili da gestire; creare una nuova collezione comporta infatti grandi sforzi creativi, ricerca e investimenti, a fronte di risultati incerti e aleatori. Buttarsi nelle braccia di una grande maison di moda sembra quindi l’unica opzione possibile per non chiudere i battenti.
Questa idea dell’unica opzione possibile per far fronte ad una difficoltà è in realtà una risposta che possiamo definire “di tendenza” nel modo di fare comunicazione oggi: lo abbiamo sperimentato nella pandemia Covid, dove l’unica soluzione prospettata sono stati i vaccini; lo vediamo in queste settimane con la guerra, dove ci viene detto che, per arrivare alla pace, occorre fornire armi alla parte più debole e imporre sanzioni all’aggressore. Queste proposte obbligate non possono essere messe in discussione, la verità è solo da una parte, chiunque propone una visione alternativa rimane inascoltato, se non censurato e denigrato. Si procede cioè ad una semplificazione talmente profonda che il “consumatore” di notizie e di “pensieri” può e deve distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, senza grandi sfumature.
Voi vi starete chiedendo cosa c’entrano la pandemia e la guerra con l’utilizzo della tecnologia digitale da parte delle PMI.
Ve lo spiego subito.
Qualunque azienda, qualunque brand, qualunque venditore ha la necessità di capire il target di riferimento a cui vendere i propri prodotti, per anticipare i bisogni che ciò che propone andrà a soddisfare e per mettere a punto una strategia di comunicazione efficace ed efficiente.
Se la platea dei consumatori si è abituata da anni ad assorbire prodotti massificati e omologati, dove l’unica variabile considerata importante è il prezzo e i “followers” virtuali dell’influencer che li sponsorizza, si capisce che un artigiano con pochi mezzi finanziari è automaticamente tagliato fuori e destinato a rimanere invisibile. Se la platea in questione viene orientata nei propri acquisti da algortmi preconfezionati dai proprietari delle varie piattaforme, che sono anche proprietari dei brand oggetto degli stessi acquisti, è evidente che non c’è spazio per provare a comunicare qualsiasi cosa si discosti dalle tendenze imposte dall’alto.
Questa disabitudine alla scelta, comporta l’assenza di valutazione sostanziale delle caratteristiche del prodotto che ci si accinge ad acquistare, e rende il consumatore pigro e disorientato. Sembra che, senza qualcuno che lo prenda per mano e lo guidi, non sia più capace di capire cosa preferisce e perché; invece di concentrarsi sull’oggetto che soddisfa realmente le proprie esigenze personali e peculiari, dimostra una sorta di paura nell’acquistare qualcosa che magari potrebbe non essere apprezzato dalla maggioranza.
Il giudizio della massa diventa quindi la discriminante principale nella propensione agli acquisti.
Le mode sono sempre esistite nella fashion industry, ma fino ai primi anni ’90, l’offerta di prodotti e di tendenze era talmente variegata che, non solo si aveva la possibilità di sperimentare stili diversi a seconda delle varie fasi della propria vita o della propria età, ma la stessa persona aveva a disposizione tanti prodotti quante erano le occasioni in cui si trovava a partecipare: in ufficio si andava in abbigliamento e scarpe classiche, per le cerimonie o le feste si acquistava quasi sempre qualcosa di nuovo e di elegante, per una gita o una scampagnata si optava per un outfit informale e sportivo, sempre però calibrato sulle caratteristiche fisiche di ciascuno e soprattutto sul proprio gusto personale.
Oggi invece non è più così. La mamma veste come la figlia, per andare al ristorante non occorre mettere i tacchi e un tailleur e in ufficio si va tranquillamente in jeans e sneaker. E se la Ferragni indossa i ciabattoni con i calzini di lana, averli identici o comunque simili diventa un must. Il rischio è quello di mostrare una personalità alternativa e non conforme a quella della maggioranza che ci circonda e quindi di essere automaticamente fuori dal circolo di riferimento.
Partendo da un consumatore che agisce in questo modo condizionato, mi sono chiesta come poteva un artigiano sconosciuto delle colline marchigiane farsi notare e attirare l’attenzione dei potenziali acquirenti.
Insieme al mio collega e amico Cosimo, fotografo ed esperto di web, abbiamo pensato che gli strumenti più adatti allo scopo potevano essere essenzialmente tre: delle belle foto, tecnicamente valide e in grado di mettere risalto quei dettagli che fanno la differenza tra un prodotto di massa e uno di qualità, una comunicazione digitale chiara e semplice, che non obbligasse il consumatore ad essere un esperto di internet, la possibilità di partecipare al processo creativo che si cela dietro ad ogni manufatto, dando la opportunità di personalizzare alcuni elementi del prodotto presentato.
L’esempio più riuscito è Eureka the Original, un brand di scarpe da bambino, specializzata nella costruzione “ideal” e proprietaria del brevetto delle scarpe con gli “occhietti”, che quasi tutti i miei coetanei hanno indossato da piccoli: all’interno di un sito esteticamente gradevole e funzionale, mettendo a disposizione una cartella colori, una guida alle taglie per la vestibilità ( che è diversa da produttore a produttore se si parla di prodotti artigianali), tre o quattro fondi da poter abbinare ai modelli, siamo riusciti ad incrementare il fatturato di questa azienda del 40% in poco più di un anno e proprio nel momento più difficile a causa del lockdown sanitario.
La fase positiva iniziata ad Aprile 2020 sta continuando a darci soddisfazioni, ma mi sono accorta che il pubblico di riferimento è cambiato, subendo in qualche modo una sorta di involuzione. Il prezzo, che è relativamente importante per una scarpa da bambino da sostituire dopo pochi mesi visto che i bambini crescono in fretta, non sembra essere la discriminante fondamentale. Così come non costituisce un grande problema il fatto di dover aspettare un paio di settimane per ricevere il proprio acquisto. Ciò che spaventa di più il consumatore è proprio il dover scegliere, con il rischio di non aver comprato ciò che realmente corrisponde ai propri gusti e ai propri bisogni.
La gente ha fretta, è distratta e sempre più pigra: pur riportando le informazioni principali riguardanti i prezzi, i tempi di consegna e le istruzioni per scegliere la taglia giusta, le domande che riceviamo sempre più spesso riguardano proprio questi argomenti ed evidenziano il fatto che nessuno legge ciò che abbiamo scritto proprio per fugare tali dubbi.
In secondo luogo, avere a disposizione tante opzioni tra cui scegliere sembra quasi essere diventato controproducente: dedicare qualche minuto a visionare le tonalità che mettiamo a disposizione o consultare la guida taglie sembra troppo faticoso, mentre noto una certa ansia nel non essere sicuri di prendere lo stesso identico colore della scarpa fotografata nell’ultimo post su Instagram. Pazientemente spieghiamo che si tratta di pellami naturali spazzolati a mano che rendono ogni paio diverso dall’altro e che questo rappresenta il valore aggiunto del nostro Made in Italy; diligentemente rassicuriamo che, anche se per altri marchi hanno acquistato una taglia diversa, siamo sicuri che la nostra tabella guida corrisponde perfettamente alle proporzioni delle nostre scarpine e che, in caso di errore, siamo comunque disponibili a rimediare, nonostante la legge non preveda il reso per prodotti on demand.
Infine, le richieste di generici consigli: tralasciando chi vorrebbe sapere se la scarpa andrà bene anche dopo 4 mesi dall’acquisto, come se fosse ignaro del fatto che anche i piedi dei bambini crescono insieme al resto del corpo, molti genitori chiedono consiglio sul modello o sul colore più giusto da acquistare, senza però fornirci nessun elemento dirimente, tipo l’occasione in cui la scarpa andrà indossata o l’abbigliamento a cui andrà abbinata. Se da una parte dimostrano con questi quesiti di riporre in noi una grande fiducia, sentimento che apprezziamo molto in quanto attestazione concreta del buon lavoro fatto nella costruzione della nostra “brand identity”, dall’altra rimaniamo un pò disorientati nel constatare che l’autonomia e la consapevolezza nell’acquisto stanno via via diminuendo, scaricando su di noi e sull’azienda tutta la responsabilità della stessa.


La riflessione che mi sento di fare, in conclusione è la seguente: questo atteggiamento è sicuramente la naturale conseguenza di un sistema di consumo in cui siamo stati tutti precipitati per cause indipendenti da noi, ma se non riconosciamo che la completa deresponsabilizzazione di tutte le nostre azioni, anche quelle apparentemente poco importanti come quella dell’acquisto di un paio di scarpe, rischiamo di perdere la caratteristica fondamentale che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi, ovvero il libero arbitrio. Rischiamo cioè di vederci trasformati in tanti piccoli automi programmabili a piacimento dall’algoritmo di turno.
E poiché l’artigianalità, la creatività e la varietà sono le caratteristiche fondamentali del nostro Made in Italy, scegliere con consapevolezza e attenzione anche un piccolo paio di scarpe significa difendere un modo di vivere e di essere che ci rende orgogliosi di essere italiani.
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