„è qualcosa di bello, la distruzione delle parole. Naturalmente, c’è una strage di verbi e aggettivi, ma non mancano centinaia e centinaia di nomi di cui si può fare tranquillamente a meno. E non mi riferisco solo ai sinonimi, sto parlando anche dei contrari. Che bisogno c’è di una parola che è solo l’opposto di un’altra? Ogni parole già contiene in se stessa il suo opposto. Prendiamo “buono”, che bisogno c’è di avere anche “cattivo”? “Sbuono” andrà altrettanto bene, anzi meglio, perché, a differenza dell’altra, costituisce l’opposto esatto di “buono”. Anche se desideri un’accezione più forte di “buono”, che senso hanno tutte quelle varianti vaghe e inutili : “eccellente”, “splendido”, e via dicendo? “Plusbuono” rende perfettamente il senso […]. Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera di azione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere […]. Tutta le letteratura del passato sarà distrutta: Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron, esisteranno solo nella loro versione in neolingua […]. Anche la letteratura del partito cambierà, anche gli slogan cambieranno. Si potrà mai avere uno slogan come “La libertà è schiavitù”, quando il concetto stesso di libertà sarà stato abolito? […]. Il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.“
Queste parole sono una citazione da “1984” di G. Orwell, un romanzo che negli ultimi due anni è stato citato più volte da molti. E sono pronunciate da Winston Smith, il protagonista del romanzo che, per mestiere, aveva il compito di riscrivere la storia, compresa quella appena passata, censurando qualunque informazione non rispecchiasse la linea imposta dal regime. L’elemento forse più grottesco è che tale linea variava su base giornaliera, un po’ come ai giorni nostri.
Quando, qualche giorno fa, mi sono imbattuta in questo articolo, https://parstoday.com/it/news/world-i294016 usa_biden_e_il_%27ministero_della_verit%C3%A0%27 ho visualizzato immediatamente il fantasma di Winston seduto alla scrivania e intento a spulciare tutti gli articoli di giornali e TV, compresi quelli di dei canali digitali, per poi cancellarli e riscriverli secondo il “protocollo” governativo legiferato dalla Casa Bianca.
Ad essere sinceri, il cosiddetto “Ministero della Verità” d’oltreoceano altro non è che l’evoluzione naturale di quel processo chiamato “cancel culture” o “politically correct” da cui siamo oppressi da diverso tempo. E non è un fenomeno solo americano: dagli States si è propagato come un virus contagiando tutto il mondo occidentale, in particolare l’Europa e i suoi “young global leaders”. Notizia di qualche giorno fa è infatti l’approvazione da parte della Commissione Europea del “Digital Services Act”, di cui vedremo i risvolti pratici nei prossimi mesi.
Tralasciando le considerazioni etiche e filosofiche di questo fenomeno, ho cercato di riflettere sul modo in cui esso si riverbera sulla comunicazione che più ci riguarda da vicino, ovvero quella che attiene alla promozione del Made in Italy e delle nostre PMI.
Se ci fate caso, la stragrande maggioranza degli spot pubblicitari, dei post sui social, dei messaggi promozionali in senso generale si sviluppa oggi su cinque temi principali: green economy, gender fluid, antirazzismo , animalismo e trasformazione digitale. All’interno di queste macro-aree, si dipanano varie sottocategorie che vanno dall’economia circolare alla condanna degli allevamenti intesivi, dai movimenti Black Lives Matter e LGBT+ alle quote rosa nelle
imprese pubbliche e private, dalla lotta contro il body shaming e il bullismo all’intelligenza artificiale come nuova frontiera del progresso umano e industriale.
Su tutte, domina da due anni quella che viene chiamata SCIENZA, grazie alla quale solo chi possiede competenze scientifiche, peraltro auto attribuite, ha diritto di parlare, di informare e di “educare”.
Si comprende pertanto che, qualunque azienda, al momento di stabilire la linea editoriale della propria comunicazione, al di là del budget, sa che raccontare i propri prodotti attraverso l’utilizzo di immagini e testi che rispettino queste tendenze è assolutamente obbligatorio. Pena la “censura” da parte dei media e/o il boicottaggio dei consumatori a cui questi prodotti sono rivolti.
Considerando che un messaggio promozionale, specialmente sui social media, deve necessariamente avvalersi di slogan brevi ed efficaci e che l’immagine rappresenta il contenuto più importante, ne consegue che tutti i social media manager propongono nell’ordine: testimonials possibilmente di colore e/o dai caratteri somatici “particolari”, ambientazioni in luoghi selvaggi o rigorosamente minimalisti e “new age”, cani e gatti che fungono da co-protagonisti attivi, outfit sempre più trasgressivi e simbolicamente annunciatori di una prossima invasione aliena o dell’avvento di una nuova generazione di androidi con i superpoteri.
Dal punto di vista del copy invece, ci troviamo da un lato, a non poter utilizzare certi termini, per timore di essere “bannati” dagli standard della community stabiliti dalle varie piattaforme digitali; dall’altro, siamo portati a strumentalizzare il lessico di riferimento delle macro-aree sopramenzionate, con il risultato di rendere i nostri testi privi di ogni significato e originalità.
Per fare un esempio: che cos’è esattamente un prodotto eco-sostenibile o inclusivo e come si riconosce? Qual è il valore aggiunto di un prodotto sponsorizzato con una campagna in cui il testimonial è androgino o la cui identità sessuale non è riconoscibile e definita? Siamo sicuri che esibire un fisico strabordante per promuovere un brand di calzature sia funzionale ad abbattere i pregiudizi e aumentare il fatturato? Cosa realmente si intende vendere, un’ideologia o un prodotto/servizio con caratteristiche qualitative di un certo tipo?
Proprio come avviene per il linguaggio dei computer, rischiamo di essere soffocati da un tipo di pensiero binario, utilizzato come unico strumento di gestione e di orientamento delle nostre vite: non selezionare, ad esempio, un uomo grasso per promuovere dei costumi da bagno perché pensiamo che non sia né piacevole da vedere né funzionale alle vendite, ci condanna ed essere etichettati come “bulli e omofobi” ; o vestire una modella in un ambiente country con jeans e maglietta e non con i tacchi a spillo, diventa automaticamente indice di bigottismo. In questo modo, si mina fortemente la creatività e ci si autocensura, uniformando passivamente la propria comunicazione ai binari accettati dalla maggioranza. Alla base di questo comportamento c’è il timore di perdere quote di mercato a causa delle proprie scelte editoriali, in cambio però di risultati mediocri: si ritiene cioè “eticamente” giusto ed “economicamente” legittimo non distinguersi dai canoni “ufficiali” e non offendere la sensibilità della minoranza di turno, in nome di un globalismo ideologico asettico e informe. Come risultato, abbiamo quindi un completo appiattimento delle tendenze e delle idee, attraverso il quale la massificazione e l’omologazione danno al consumatore solo l’illusione e non la concreta possibilità di scegliere tra prodotti diversi. Oltre a distruggere inevitabilmente i concetti di bellezza, eleganza, creatività e stile che da sempre hanno contraddistinto il nostro Made in Italy.
Ad essere disintegrato è il concetto stesso di identità: il prodotto, così come il suo testimonial e la comunicazione ad esso associata non vengono più selezionati in base al target di riferimento o alla funzione che sono chiamati a svolgere, ma vengono utilizzati indifferentemente in qualunque tipo di campagna, perché il messaggio che deve passare è di tipo ideologico, completamente staccato dall’ambito prettamente commerciale. Così facendo, però, tanto i testimonials, quanto i prodotti e gli stessi consumatori diventano intercambiabili, anonimi e uno uguale all’altro.
In sostanza, annullare le diversità, e imporre regole che conducono verso un “pensiero unico dominante” provocano l’effetto esattamente opposto a quello che ufficialmente ci viene propinato: l’inclusione, il rispetto della diversità e delle particolarità di ciascuno e la scelta consapevole del consumatore non avvengono attraverso un processo “critico” di valutazione e confronto ma si auto-affermano per l’assenza di offerta. Non più “valuto tra più opzioni possibili quindi scelgo”, ma “opto tra A e B a seconda di ciò che la società decide sia meglio”.
Lungi da me il considerare moralmente sbagliato indossare un paio di shorts anche quando la nostra silhouette consiglierebbe un caftano o pensare che l’intelligenza artificiale sia la soluzione di tutti i nostri problemi; ma far passare il messaggio che si possa sfidare ogni legge della natura o che vivere ogni esperienza in modo digitale attraverso un avatar guidato da algoritmi rappresenti la migliore esistenza possibile, beh, ce ne passa!
Anche perché, per ritornare all’articolo da cui è partita la mia riflessione, ci sarebbero infinite domande da porsi prima di buttarsi a capofitto in questa nuova rivoluzione industriale:
- Chi deciderà quali esperienze digitali potremo fare o non fare? E come vengono scelti i componenti di queste task forces per la disinformazione?
- Se tutto verrà regolato da un algoritmo, chi o che cosa avrà il compito di programmare tale algoritmo? Sulla base di quali parametri?
- Se l’essere umano viene controllato e guidato attraverso piattaforme e identità digitali, chi ci garantirà che l’interruttore di queste piattaforme non venga arbitrariamente spento a piacimento da un “dominus” di cui nessuno conosce l’identità?
- Quale spazio rimarrà per la parte trascendente e “umana” della nostra esistenza? Quale quello riservato alle emozioni e al libero arbitrio che ci distinguono dagli altri esseri viventi?
Tanto nel marketing, quanto in tutte le altre arti o discipline con le quali abbiamo a che fare ogni giorno, siamo prostrati dalla cosiddetta “dissonanza cognitiva”: siamo cioè bombardati da affermazioni astrattamente dichiarate vere da presunti esperti, ma talmente incoerenti tra di loro da disorientare completamente i nostri comportamenti, che entrano in un angoscioso conflitto con tutti i principi che credevamo assodati.
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