Quando ho deciso di avviare questo blog, ho cercato di capire se e per quale motivo gli utenti dovrebbero essere interessati a leggere ciò che scrivo. E mi sono chiesta se, chi visita il sito di Keep in Touch certo di trovare soltanto informazioni sul business di calzature e pelletterie, capisca qual è il nesso causale che lega l’attività prettamente commerciale della piattaforma e lo spirito del blog.

Il primo articolo pubblicato riporta un’intervista da me rilasciata a proposito di un romanzo che ho scritto e di un cortometraggio che ho realizzato a partire da quelle righe. Ad un primo sguardo, sembrerebbe che l’elemento di raccordo sia la “calzatura” intesa semplicemente come prodotto; in realtà, il mio intento è portare il lettore a riflettere su un concetto più generale e profondo.

Cosa rappresenta l’artigianalità? Cosa c’è dietro la manualità, l’inventiva e la perfezione estetica di una scarpa o di una borsa?

Perché la fabbrica è una comunità. È un contenitore di relazioni, di amicizie, di conflitti e di tolleranza anche forzata. È un luogo dove è obbligatorio interagire, rispettando chi occupa la posizione precedente o successiva alla propria nella catena di montaggio. È la vita vera, quella fatta di piccole grandi conquiste, dove il prodotto finale, scarpa o borsa che sia, è il risultato di una sinergia non solo di azioni meccaniche e ripetitive, ma anche e soprattutto di emozioni, intuizioni, abilità e fatica.

Per ottenere una scarpa pronta per la vendita non basta premere un bottone come si fa con i tasti del telecomando della TV o di un PC: occorrono tempi lunghi, che vanno rispettati al secondo senza poter prendere scorciatoie; serve tutta l’attenzione possibile, per fare in modo che errori troppo critici rischino di dover buttare via tutto e ricominciare da capo. Perché in fabbrica, come nella vita, gli errori si pagano e chi li ha commessi, in un modo o nell’altro,  se ne deve assumere la responsabilità, cercando di rimediare al meglio.

Samuel Butler, nel 1912, scriveva che “qualsiasi opera di un uomo, che si tratti di letteratura, musica, pittura o architettura, è sempre un suo ritratto.”  E questo è perfettamente in linea con ciò che ho imparato, dedicando gran parte della mia vita adulta al mondo della calzatura Made in Italy.

Io vedo in questi oggetti un mondo che sta scomparendo sotto i nostri occhi. Vedo le vite di tutti quei lavoratori che giorno dopo giorno hanno appreso tecniche artigianali tramandate da generazioni, con i sacrifici, le gioie, i dolori e le soddisfazioni che ogni essere umano affronta da sempre. Riconosco i valori identitari, culturali e sociali che considerano il lavoro come l’elemento principe che dà dignità alle persone, in modo da contribuire attivamente al benessere della comunità in cui vivono. Apprezzo uno stile di vita che permette di coniugare il dovere di rispettare tempi, competenze e regole con il diritto di imparare dai propri errori, coltivando il senso di appartenenza ad un gruppo sociale di riferimento, al di sopra del proprio individualismo.

Da qualche decennio, siamo stati catapultati in una globalizzazione non solo economica e finanziaria, ma anche in una omologazione culturale che sta annullando ogni identità e ogni caratteristica peculiare che rende i nostri prodotti e i nostri artigiani intercambiabili con quelli di ogni altro Paese.

Siamo martellati quotidianamente dalla fanfara dell’assoluta necessità di digitalizzare le nostre imprese e i nostri processi produttivi, in nome di un progresso che ci vorrebbe schiavi della tecnologia.

IO NON CI STO

Nella mia piccola esperienza personale, sono stata tra le prime imprenditrici del distretto fermano-maceratese a convincermi dell’immensa utilità che la tecnologia digitale avrebbe potuto rappresentare per le nostre aziende di tipo familiare: un sito internet gradevole e funzionale, una corretta gestione dell’immagine attraverso i social media, la possibilità di raggiungere un pubblico potenzialmente enorme in tutto il mondo in tempi e modalità rapide ed efficaci non sarebbero mai state possibili ed accessibili economicamente senza la diffusione capillare della digitalizzazione che abbiamo raggiunto.

Ma, quando l’immagine virtuale diventa più importante della sostanza concreta di un prodotto e quando il valore di questo prodotto si sconnette quasi completamente dal valore del lavoro necessario a realizzarlo, allora ho la sensazione che qualcosa di questo meccanismo non abbia funzionato.

Forse non tutti sanno che, fino a qualche anno fa,  molti dei manufatti venduti nelle vetrine dei più prestigiosi brand del lusso in tutto il mondo venivano fabbricati proprio da questi artigiani sconosciuti che, in pratica, hanno venduto il loro know-how quasi centenario per un piatto di lenticchie, ricevendo in cambio un compenso che copriva a stento i loro costi di produzione. Una volta che la delocalizzazione selvaggia è stata sdoganata da governi, associazioni di categoria e intellettuali “diversamente illuminati”, gli stessi artigiani sono stati sostituiti da catene di montaggio esotiche e abbandonati al loro destino. Squalificati come imprenditori perché incapaci di stare al passo con il progresso, e come uomini perché la vita che avevano dedicato al loro lavoro poteva essere considerata praticamente inutile.

Molte volte, in questi ultimi periodi, abbiamo sentito parlare di “riconversione”.

E io chiedo: riconversione di cosa? Della propria vita? In che modo un artigiano calzaturiero può riconvertire la propria produzione in pochi anni e senza liquidità? E, soprattutto, verso quale direzione dovrebbe riconvertirla?

E ancora: si è mai provato, concretamente, ad analizzare costi e benefici di un tale processo? Quale sarebbe il vantaggio per quell’artigiano che, secondo Butler, realizza il suo ritratto nelle opere che produce? Siamo così sicuri che la cosiddetta distruzione creativa non finirà per corrispondere alla distruzione di quel sistema sociale ed economico su cui abbiamo costruito la storia del nostro Paese?

Gli avvenimenti degli ultimi due anni e, soprattutto, la situazione internazionale attuale, rappresentano, a mio avviso, il momento decisivo per rispondere a queste domande.

Siamo di fronte ad un vero e proprio scontro tra due modelli culturali, se non tra due civiltà: da una parte, la tecnocrazia, che vede nel progresso tecnico l’ideologia a cui non si può derogare in nome del diritto del “più forte”; dall’altro la volontà di conservare l’identità culturale di ciascuno degli attori, legata al mondo reale e alla centralità dell’essere umano e della sua dimensione più spirituale, pur con tutte le sue contraddizioni e fragilità. Da una parte un’economia prettamente finanziaria, dove la moneta viene creata dal nulla; dall’altra un sistema monetario che vuole ritornare ad ancorarsi ad elementi reali, come l’oro, le materie prime o l’energia. Entrambe le fazioni non sono esenti da errori anche gravi, entrambe sono purtroppo disposte ad utilizzare mezzi eticamente non accettabili.

Ma tutti noi siamo chiamati a comprendere, a studiare, ad informarci il più possibile, perché capire questa transizione sarà fondamentale per tentare di resistere e governare il mondo turbolento che ci aspetta e che intendiamo lasciare a chi verrà dopo di noi.

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