Come i marchigiani intendevano l’immigrazione negli anni ’70

Pubblicazione del racconto nella Collana “Le Vele” di Dantebus Edizioni e nell’Edizione 2020 dell’antologia delle Marche Premio Città di Ascoli Piceno

Oggi il problema dell’immigrazione e dell’integrazione di cittadini extracomunitari nel nostro Paese ha assunto dimensioni critiche e la convivenza non è scevra da difficoltà e pregiudizi. Ma i marchigiani di qualche decennio fa sapevano bene come districarsi tra diffidenza verso il “diverso” e necessità di “inserimento” nel tessuto sociale di provincia.

Questo racconto, che ho scritto nel 2020, ha avuto l’onore di essere selezionato e pubblicato in due antologie, ne è un esempio in versione romanzata.

Buona lettura e buona riflessione!

26 Dicembre 1978.

Nella chiesa di San Lorenzo di Treia, si sposano Gabriella e Mosi, detto Mosì, perché nelle Marche le parole si accentano tutte alla fine. Lei viene da un paese della provincia di Fermo, lui dalla Costa d’Avorio.

E’ un bel ragazzo alto e distinto, ha studiato a Milano all’Ars Sutoria, una scuola di design molto rinomata e si è inserito subito nella comunità calzaturiera , perché è bravo nel suo lavoro, educato ed elegante e quando parla riesce a mescolare tutti i vocaboli dialettali che ha imparato in un unica parola, affascinante come i suoni francesi e comica come le battute di Totò.

Anche lui, come tutti, ha un soprannome, i compaesani lo chiamano il Moro. L’articolo determinativo oggi non avrebbe nessun senso, ma nel 1978 era davvero il solo uomo di colore del paese.

Si sono sposati in chiesa, anche se lui non è cattolico, per compiacere la famiglia di lei che, per l’epoca, tutto si aspettava meno che un genero colorato.

Mosì è scintillante: con il suo doppiopetto di velluto bordeaux impreziosito sul davanti da una grossa fibbia di strass bianchi e neri, sembra un divo del cinema!

Mentre la famiglia di Gabriella non ha badato a spese, visto che le chiacchiere di paese vanno stoppate sul nascere.

-”La vardascia cià qualche grillo pe’ la testa, te lo dico io! Ma te pare che una come essa dovìa scejese un straniero pe’ marito?”-

-” No, ma vattene! Io so notato che s’è ingrassata proprio sula pancia… e de me te poli fidà, perché la so vista proprio vene. Tutte le matine, me piazzo co’ la sedioletta de paja davanti casa e essa passa proprio lì davanti pe’ ji a fatigà, non me posso sbaglià!”-

Mentre per i fedelissimi di Don Manlio sposarsi davanti a Dio con un miscredente poteva essere solo frutto delle tentazioni di Satana oppure una “fattura”.

Una “fattura” altro non era che un rito magico di origine antica che, di solito, veniva usato dalle vergare malefiche contro una rivale in amore o contro un parente particolarmente inviso. Non si usavano bamboline o spilli, ma qualche strano miscuglio di erbe e liquidi da far bere al malcapitato o da gettare controcorrente nel fiumiciattolo appena fuori dal paese, rigorosamente allo scoccare della mezzanotte e magari durante un temporale.

Fatto sta che, a dispetto delle malelingue, Gabriella e Mosì iniziano la loro vita insieme, frequentano la vita del paese e, crescono due figli bellissimi, Corinna e Luigi.

E Mosì fa un bagno di almeno venti minuti tutti i giorni e si cosparge di profumo, perché sa che la sua pelle ha un odore troppo acre per le delicate narici dei suoi compaesani.

Come mai una comunità cosi’ chiusa e culturalmente arretrata come quella marchigiana, abbia accolto favorevolmente quello che, a tutti gli effetti, poteva considerarsi un uomo fuori dal comune, resta un mistero.

Io un’idea, però, me la sono fatta.

Negli anni ‘70, la maggior parte degli abitanti di quei borghi medievali sperduti tra le colline, credeva che tutti gli uomini di colore fossero simili ai personaggi di Via col Vento e il Moro era il primo e l’unico vero uomo nero che avessero mai visto in carne ed ossa.

In più, nell’unica regione italiana che si declina al plurale, il dialetto di Pesaro è rimasto molto simile a quello romagnolo,  mentre il maceratese si confonde con le cadenze umbre. Da San Benedetto del Tronto in poi, siamo in pieno Abruzzo.

E fin qui è tutto semplice.

Le cose si fanno ancora più complicate quando un abitante di Montegranaro incontra un parente che abita a qualche chilometro di distanza.

Ricordo ancora che mia nonna riusciva a fare “lo caffè bono” perché si faceva fare la “miscella dala torefazio’”, mentre la zia Jole, sposata con un ragazzo di un paese limitrofo, diceva che “lu caffè più bonu era quillo de lu maritu”.

E mentre a Civitanova Marche, ridente cittadina sulla costa adriatica, traducono il “bros” americano con uno squillante “a frà”, a Porto sant’Elpidio, litorale dieci chilometri più a sud, “pioìa talmende forte che sbiscìa tando e non se caìa a rsue”.

Infine, non va dimenticato che, grazie alla forte industrializzazione di quegli anni, non era raro incontrare sardi, siciliani, abruzzesi e napoletani che, emigrati dai loro territori in cerca di lavoro, hanno poi deciso di stabilirsi nelle Marche grazie alle attenzioni delle belle ragazze del posto.

Una mia cara amica di origine russa, figlia di padre ungherese e madre ucraina, che ha passato l’infanzia a Mosca, studiato a Budapest, vissuto da sposata a Salonicco e arrivata nelle Marche dieci anni fa dopo la separazione dal marito greco, mi ha confidato che le sette lingue che ha imparato sono nulla in confronto alle enormi difficoltà che trova nell’interpretare il dialetto della gente che incontra ogni giorno.

Quindi,i marchigiani hanno conosciuto la globalizzazione in tempi non sospetti e la naturale diffidenza nei confronti di Mosì si era velocemente azzerata grazie all’unica condizione imprescindibile necessaria per entrare a far parte della comunità: essere instancabili lavoratori.

La vita della nuova famiglia mista scorre comunque tranquilla, a scuola non si parla ancora né di razzismo nè di integrazione. Mosì, dopo il lavoro, chiacchiera con i compaesani al bar e i figli sono esattamente uguali ai loro amici bianchi, grazie alla passione per gli stessi cantanti e ai patemi per gli stessi problemi adolescenziali.

Finchè, una volta maggiorenni, decidono di studiare fuori regione per  allargare i loro orizzonti che, ormai, sono diventati un po’ stretti.

Il paese, in quegli anni, conosce una vera e propria rivoluzione economica, specializzandosi nella produzione di calzature e affini; le scarpe si vendono in tutto il mondo e molti operai si licenziano per aprire la loro fabbrica artigianale; le strade sono affollate di automobili di grossa cilindrata, mentre i cantieri di ville e giardini si moltiplicano.

Le mamme possono crescere i loro figli semplicemente acquistando una macchina da cucire in casa; le nonne vanno in pensione a sessant’anni, accudendo  i nipoti e contribuendo al bilancio familiare; in Agosto si carica la macchina nuova fiammante e si parte per la tanto agognata vacanza al mare o in montagna, grazie all’impareggiabile fortuna di avere lunghe spiagge di sabbia bianca a sud-est, il promontorio del Conero con le sue acque cristalline a Nord e i Monti Sibillini con i loro boschi e i loro sentieri a ovest. Il tutto in poche centinaia di chilometri.

Anche Mosì, come tutti gli altri, ha la possibilità di dare ai figli quell’istruzione universitaria che a lui era stata negata dalle circostanze della vita. Nonostante provenga da una tribù africana, ha una mentalità molto aperta e progressista e sa che l’istruzione è uno dei pilastri fondamentali del futuro. Vuole fortemente che i suoi figli possano scegliere la loro strada  seguendo le proprie aspirazioni e le proprie inclinazioni ed è sicuro che, appena laureati, troveranno facilmente un buon lavoro e vivranno una vita più che dignitosa.

Nessuno ha mai saputo come e perché abbia deciso di lasciare la sua tribù, a sua moglie non ha mai veramente raccontato come era la sua vita di prima e perché non voleva assolutamente tornare nel suo Paese, nemmeno in vacanza.

E Gabriella mal sopporta alcune sue prese di posizione riguardo l’educazione da dare ai figli, la sua intransigenza verso alcuni comportamenti e il silenzio con il quale risponde ai ragazzi quando gli chiedono  dei nonni paterni o di qualche zio africano. Dopo qualche decennio di boom economico però, la situazione economica inizia a cambiare: le commesse si fanno meno consistenti, le riscossioni sempre più difficoltose e molti negozi chiudono i battenti. L’Italia intera è in recessione, mentre la classe politica diventa sempre più astiosa e sempre meno preparata, concentrata a contendersi il titolo di “migliore leone da tastiera”.

Mosì lavora poco, anche perché la concorrenza di ragazzi più giovani e più tecnologici si fa agguerrita giorno dopo giorno.

Ormai i modelli si ricavano con il computer, non più a mano, e anche se in fatto di esperienza è uno dei migliori della zona, i suoi compensi rimangono troppo alti per molte fabbriche già in difficoltà.

Il paese si è riempito di lavoratori stranieri, gente che dal Marocco, dal Pakistan o dalla Cina ha scelto, come lui tanti anni prima, di lasciare il proprio Paese in cerca di un futuro migliore. Anche loro, come i marchigiani, sono abbagliati dal benessere e dal guadagno facile. Non abbandonano le loro tuniche e i loro veli, né dimenticano la loro lingua; ma una volta conosciuta l’abbondanza, ritornare alla casella di partenza è sempre più difficile.

Ciononostante, Mosì non si perde d’animo. Per un po’ non dice nulla alla sua famiglia, cercando di arrangiarsi come meglio può. Di nascosto  trova lavori saltuari come elettricista e idraulico, come fattorino o come autista. Poi, grazie alla buona stella che lo ha sempre accompagnato, conosce un cliente russo che, innamorato della costa marchigiana, ha deciso di acquistare una villa sul mare per andare a riposarsi di tanto in tanto. Mosì diventa il suo autista, il custode della sua villa, il suo tuttofare. 

Finché una mattina, dopo aver accompagnato Sacha all’aeroporto di Ancona, ha un incidente in autostrada. Non ricorda praticamente nulla di cosa sia successo, è l’ora di pranzo, non ha bevuto e non è affatto stanco. Anzi, è  sereno e rilassato,  grazie agli stipendi arretrati che ha appena ricevuto e con i quali pagherà le tasse universitarie dei suoi figli.

Purtroppo, la spiegazione di quell’improvvisa amnesia la riceve qualche settimana dopo, dal referto della risonanza magnetica. Improvvisamente, ha di fronte il nemico più agguerrito che si possa immaginare. Un brutto male ha attaccato il suo cervello e gli restano pochi mesi di vita.

Quella terra promessa, che lo aveva accolto come un figlio e che gli aveva regalato il miraggio di una vita a quattro stelle, lo aveva tradito, deturpata da un’industrializzazione selvaggia e privata dei suoi paesaggi e della sua aria genuina.

Ha sessantacinque anni e un unico grande rimpianto, quello di non avere raccontato nulla di lui ai suoi figli e aver impedito loro di conoscere le proprie origini.

Se ne va il 26 Agosto del 2012, dopo aver lottato come un leone, con la speranza che il suo figlio maschio possa un giorno avere il desiderio di andare a  cercare il seme di quei capelli così scuri e di quegli occhi da cerbiatto.

E comprendere che la morte sorride solo a chi ha saputo combatterla a testa alta.

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